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Il Dio di Gesù Cristo

TEOLOGIA 

Mons. Gherardini stronca la Cristologia liberale - Alcuni scritti di mons. Bruno Forte suscitano il dibattito 

Il Decano di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Mons. Prof. Brunero Gherardini, già autore su "Disputationes Theologicae", di un sintetico e puntualissimo articolo su “Il valore magisteriale del Vaticano II”, interviene ora con un contributo di grande stimolo scientifico. Senza tergiversare, l’illustre teologo stronca come gravemente eterodossa la cosiddetta “cristologia liberale”. Quest’ultima, partendo da ambienti esegetici influenzati da Strauss e Bultmann o dal pensiero del “protestantesimo liberale” in genere, ha guadagnato molti teologi contemporanei. Mons. Gherardini analizza questa “nouvelle théologie” nella sua simbiosi con il pensiero “anti-metafisico” di certa filosofia tedesca. Egli concentra la sua analisi sul terreno strettamente teologico, esprimendo, con dovizia di documentazione, il suo energico dissenso dalla teologia di Mons. Bruno Forte. 


 IL DIO DI GESU' CRISTO 

 di Mons. Brunero Gherardini 

   Quanto sto per scrivere è ben lungi, nell'intenzione e di fatto, da ciò che comunemente è detto processo alle intenzioni. Per principio mi sforzo sempre di considerarle tutte - le intenzioni - pure e sante. Ovviamente, "donec contrarium probetur", nel qual caso anche una presunzione di santità o ne trae le conseguenze, o si rassegna al ridicolo. S'aggiunga poi che l'intenzione, anche se pura e santa, non trasferisce automaticamente la propria ineccepibilità morale nel suo prodotto, il quale ha un suo realismo oggettivo, e quindi una sua moralità, prescindendo dall'intenzione formale che lo vuole e verso il quale si protende. Una bestemmia è sempre, in sé e per sé, una bestemmia, anche se pronunciata paradossalmente per render gloria a Dio. Una tale premessa era necessaria per capir il giudizio, certamente ed irriducibilmente negativo, che sto per pronunciare. Il giudizio non riguarda né le persone che han detto certe cose, né le intenzioni per le quali le han dette, ma esclusivamente le cose che sono state dette, anche se son pervenute all'orecchio e all'intelligenza di qualcuno solo perché qualcun altro le ha dette. 

   Nel sottolineare chi, metto in luce di esse il soggetto con le sue circostanze di luogo e di tempo, senza peraltro condannarlo, nemmeno se - come nel caso di cui qui m'interesso - la mia coerenza teologico-morale mi porta alla condanna inequivoca di ciò ch'è stato detto. 

   1 - Che cos'è stato detto - Mi riferisco soprattutto, ma non esclusivamente, ad un'espressione non nuova in assoluto, essendo talvolta comparsa, anche se formulata in modo diverso, in un passato non troppo lontano da non pochi degli addetti ai lavori. Proprio perché né faccio, né voglio far il processo alle intenzioni, dirò che si tratta ormai d'un modo-di-dire entrato nel gergo teologico e dai più recepito ed usato quasi certamente senz'avvertirne né la provenienza, né il significato. Provenienza e significato, a dir il vero, più vicini alla cosiddetta Liberaltheologie che non al Credo cattolico. 

    L'espressione alla quale mi riferisco suona in questi termini: i l D i o d i G e s ù C r i s t o . Forse il non addetto ai lavori, oppure il non attento all'esigenza d'un linguaggio il più possibilmente proprio per farne tramite, pur sempre inadeguato, dell'Ineffabile, neanche s'accorge d'aver a che fare con un'espressione che dir impropria è un complimento. Il fatto ch'essa allude a Dio ed a Gesù Cristo è più che sufficiente a soddisfar il facile palato di quei teologi - ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato sempre cangiante dell'immanenza. 

   Ho trovato un po' dovunque - in Italia, in Europa, nelle Americhe - le opere di siffatti maestri, brillantemente esposte nelle vetrine di librerie ovviamente cattoliche. Segnalate come nouvelle vague théologique, esse apron la teologia postconciliare alla metodologia storico-critica, chiudendola ermeticamente a quella "ex auctoritate et ex traditione". N'è nata la famosa teologia dal basso, non più legata ai dati della divina Rivelazione, né più tributaria della " soffocante" metodologia scolastica che, appropriandosi della Rivelazione stessa, imponeva i suoi criteri interpretativi e le conseguenza cui perveniva. Teologia dal basso, cioè al servizio non del "Dio che ha parlato e si è rivelato", ma del Dio che vien rivelandosi di volta in volta, qui ed ora, nel dispiegarsi di questo momento storico, nelle alternanze della coscienza religiosa, nel sentimento e nella commozione dell'animo umano, nella sua sete di giustizia e di pace, a coronamento dei suoi desideri e delle sue aspettative. Una teologia, insomma, a misura d'uomo, per l'uomo, in conformità al "suo" mistero umano ed alla "figura di questo mondo" (1Cr 7,31) che ne plasma l'identità. Una teologia, infine, tutta protesa a sondare, sulla scia della rivelazione in fieri, non più il mistero di Dio nel mistero del suo Verbo incarnato, ma il mistero dell'uomo come cartina di tornasole del mistero di Dio. A dir il vero, questa nuova teologia di nuovo ha ben poco. Nel 1835, un Repetent di Tubinga, David Friedrich Strauss, difese la tesi secondo la quale il Cristo del NT non era il Gesù della storia, ma l'oggetto della fede, quale il Libro sacro aveva accolto dalle dichiarazioni di fede della Chiesa nascente[1]. Gli scritti di questo Repetent s'innestano su altri con caratteristiche analoghe ed insieme fanno da apripista ad una corrente - la Leben-Jesu-Forschung - che dà un volto ai secoli XIX e XX, ridimensionando la figura storica di Gesù: il Signore, il Risorto assiso alla destra del Padre e presente col suo Spirito nella vita della Chiesa vien considerato come il frutto della fantasia credente, nettamente distinto e diverso dal biondo Rabbi della Galilea, dalla sua concreta ed individua esistenza all'interno d'una storicità ben determinata e sulla cui psicologia indagaron Ethelbert Stauffer[2] e, con esiti ben diversi, i cattolici Paul Galtier e Pietro Parente[3]. 

   In effetti, è questa la griglia attraverso la quale può intravedersi la scaturigine culturale del Dio di Gesù Cristo. E' la griglia del criticismo teologico che è riuscito nell'impresa di staccare la "paràdosis" del Credo dalla sua dipendenza dalle fonti e di queste medesime fonti ha talmente sconvolto il costitutivo formale da farne un fantomatico coacervo di presupposti ben al di là dei dati più elementari del NT. Dinanzi ad un siffatto isolamento critico-scientifico dell'Uomo-Dio dalla vita e dalla fede della Chiesa, la parola di Karl Barth, un protestante mai tenero verso la Chiesa cattolica, assume il timbro d'un autorevolissimo e profetico richiamo perché si smetta di dar la caccia al "fantasma d'un Gesù storico nello spazio vuoto dietro il NT"[4]. 

   Uno dei massimi responsabili di codesta caccia, quel Rudolph Bultmann che tanta fortuna incontrò in campo cattolico ed altrettanta ne procurò e ne procura ad alcune editrici cattoliche, pone il problema cristologico a cavallo tra due categorie: il mito e la storia. Prima di lui, altri - e fra questi in special modo il ben noto W. Bousset[5] - si sottrassero alla suggestione e d'un'interpretazione cristologica a partire dalla suprema regalità del Padre e videro nel Christus Kyrios una pura e semplice espressione mitologica, che trasformò l'uomo Gesù in essere divino. Da qui l'impegno, tutto liberale, di "smitizzare" il Cristo della fede per ritrovar i lineamenti storici di Gesù. D'un personaggio, cioè, che non ha nulla in comune, nella realtà dei fatti, con il Figlio preesistente di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, crocefisso risuscitato ed assiso alla destra del Padre. E che non può esser affatto il Kyrios presente nella Chiesa con la forza del suo Spirito e con l'efficacia dei suoi sacramenti. Tutto ciò, infatti, è mito che ha trasformato Gesù in Cristo e di cui questo Cristo va spogliato perché torni ad esser Gesù. La peculiarità di R. Bultmann si mise in luce nel distinguersi dalla smitizzazione liberale: egli parlò di smitologizzazione - s'è possibile tradurre così la sua intraducibile "Entmythologisierung", un lemma composito che può capirsi solo se scomposto -. Le componenti principali son "Mythos" e "Logos", precedute dal prefisso inseparabile "ent" che richiama la funzione dell'alfa privativo in greco, e seguite dal suffisso indicante l'azione privativa introdotta da "ent". Basterebbe una tale scomposizione a far capire che il programma bultmanniano, pur procedendo in direzione liberale, è tutt'altro rispetto alla smitizzazione della teologia liberale: non spazza via il mito e meno ancor il senso e l'intenzione di esso, ne tutela anzi la trascendenza liberandolo dalla "ratio" (Logos) che ne altera il senso, elevandolo a valore soprannaturale come supporto e spiegazione del Cristo della fede, un uomo che la fede avrebbe trasformato in essere divino[6]. In comune con i liberali, tuttavia, anche Bultmann aveva il traguardo del ridimensionamento del Cristo della Fede sul Gesù della storia. Nemmeno per lui i titoli messianici neotestamentari Messia, Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, Signore, Salvatore e via dicendo, dimostrerebbero che Gesù è "un'ipostasi divina"; una loro interpretazione in tal senso, secondo lui, "razionalizzerebbe" Dio e misconoscerebbe che "la divinità di Cristo è un evento" sempre nuovo "e non oggettivabile con nessun fatto del passato" e proprio per questo "opposto ad ogni oggettivazione"[7]. La conclusione, pertanto, non poteva esser diversa dalla seguente: "La formula Cristo è Dio è falsa in ognuno di quei sensi - ariano, niceno, ortodosso o liberale - che intendono Dio come una grandezza oggettivabile. Essa è corretta solo se intende Dio come l'evento dell'azione di Dio"[8]. E', questa, una costante bultmanniana. La si riscontra perciò anche in altri interventi. Nel seguente, p. es.: "Accanto a Dio    non c'è un'altra persona divina che, come tale, completi la fede giudaica nell'unico Dio. La fede non è l'affermazione di speculazioni metafisiche sulla divinità di Cristo e sulle sue (due) nature.    

   La fede in Cristo non è nient'altro che la fede nell'azione di Dio in Cristo"[9]. Era proprio necessario arrivare fin qui per capire che cosa significhi "il Dio di Gesù Cristo". Esso non ha senso se non nella separazione fisica e qualitativa di Gesù Cristo da Dio. Ha senso se si parte dal dato di fatto di codesta irriducibile dualità: da una parte Gesù Cristo e Dio dall'altra. L'uno non è l'altro e viceversa. L'uno può parlare dell'altro, ma senza che ciò lo identifichi con l'altro. Quando si legge "Io ed il Padre siamo un'entità sola" (Gv 10,30) si è di fronte non ad un'autoaffermazione sulla divinità di Cristo, sbocciata sulle sue labbra come rivelazione del suo mistero, ma a parole con cui la Chiesa avrebbe divinizzato Gesù, oggettivando nella sua fede il Padre ed il Figlio. In altri termini, l'espressione "il Dio di Gesù Cristo" è formalmente identica a quella veterotestamentaria sul Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe (Es 3,6) che il NT (Mt 22,32; Mc 12,26) ripete alla lettera e con identico significato. Quello, cioè, di Dio unico trascendente e sovrano, che può prendersi cura d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, solo perché si distingue nettamente - qualitativamente, metafisicamente - da loro. L'espressione non assume un significato diverso se applicata a Gesù Cristo. Come non fa d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe altrettante divinità né accanto a Dio, né in competizione con Lui, così l'incauta e blasfema espressione "il Dio di Gesù Cristo" non innalza il personaggio chiave dell'Evangelo al rango della divinità ed ignora - o forse nega - il dogma delle due nature in lui ipostaticamente unite. E come nel primo caso, oltre alla trascendenza di Dio, la formula esprime la fede d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe nel Dio che s'è coinvolto nella loro storia personale ed in quella del loro popolo, così nel secondo caso la formula esprime: Iddio metafisicamente distinto e separato da Gesù Cristo in base ad un'infinita differenza qualitativa di kierkegaardiana memoria; La condizione puramente umano-creaturale di Gesù Cristo che, alludendo a Dio, indica in Lui il totalmente altro da sé; la fede con cui Gesù Cristo si rapporta continuamente a Dio, espressa nella sua predicazione su Dio Padre, Amore, Giustizia, Pace. 2 - Chi l'ha detto - Mi spiace sinceramente di dover far nome e cognome, ma non posso sottrarmi al diritto del lettore di conoscer come stian esattamente le cose. Il nome, dunque, ed il cognome da fare è quello di BRUNO FORTE. Non che sia l'unico; il contorno in cui si trova è anzi piuttosto cospicuo e costituito da personaggi spesso di primo piano. Di primissimo, peraltro, è lui: arcivescovo di Chieti-Vasto dal 26 giugno 2004 e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della Fede, l'annuncio e la catechesi; taccio sui titoli accademici, notevoli ma men interessanti di quelli istituzionali. Solo per far capire che non è il primo venuto, ricorderò che, dopo il dottorato in teologia presso la facoltà teologica dell'Italia meridionale, conseguì diplomi di perfezionamento a Tubinga e a Parigi, e coronò il suo curricolo con la laurea in filosofia presso l'università di Napoli. In un non dimenticato articolo su "Divus Thomas" del 1986/87, il suo ex professore e predecessore nella detta facoltà teologica, Mons. Prof. Giuseppe De Rosa, scrisse una ragionata e lunghissima stroncatura del libro Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della Storia [10]. Scrivendo poco dopo una mia "recensione d'una recensione", riconobbi tutte le fondate ragioni del De Rosa, ma tentai pure di dar al mio scritto un tono leggermente più blando. Da inguaribile ingenuo qual sono, devo oggi riconoscere che la severità del prof. De Rosa aveva i suoi buoni motivi. Bruno Forte continuò a scrivere con penna agile e disinvolta, a tratti quasi felpata, ma sempre terribilmente al limite della rottura, in certi casi anzi, come nella sua fantateologia trinitaria, ben al di là di esso. Volutamente l'ho per anni ed anni ignorato, pur leggendo i suoi scritti e perfino ammirando la leggiadria formale in cui è solito immerger i suoi tremendi errori. Ché, d'errori si tratta, non di bazzecole. Speravo che qualche nuovo De Rosa se n'avvedesse e si comportasse con lui sull'esempio del primo. Speranze perdute. Il suo nome, presto in evidenza nelle sfere che contano[11], e sapientemente usato da editori interessati, suscitò progressivamente risonanze mondiali. Fu maestro in convegni e congressi ad altissimi livelli. Cooptato in Accademie e Commissioni di studio. Fatto vescovo e Presidente, proprio lui, della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede. Punto di riferimento (sembra) obbligato del pensiero teologico italiano. Lui soltanto o anche i suoi errori? La frase dalla quale si è partiti appartiene a lui. A lui, lo si noti bene, non come privato dottore, ma com'espressione e sintesi del pensiero e dell'insegnamento della CEI. Si trova, infatti nella Presentazione d'una Lettera ai cercatori di Dio, che S. E. Rev.ma Mons. B. Forte, a nome della Commissione episcopale da lui presieduta, ottenuta l'approvazione del Consiglio Episcopale Permanente in data 22-25 settembre 2008, inviò ai destinatari nella Pasqua del 2009. Si riprometteva, con essa, di mettersi al fianco di quanti cercano "il volto del Dio vivente": dei credenti che crescono nella conoscenza della Fede e di quanti, pur non credenti, avvertono come serio il problema di Dio e delle cose ultime. Ma intendeva sollecitare l'interesse anche di coloro che non si pongono mai un tale problema, "nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti"[12]. Solenne e nobile, dunque, l'intento ed altrettanto il punto di partenza. L'uno e l'altro, però, miseramente naufragati nei gorghi liberali della frase incriminata. Solo nella Presentazione della Lettera la frase ricorre per ben due volte: "Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l'annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo"? E poco dopo: "La commissione Episcopale si augura che la Lettera possa...suscitare reazioni...che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da lui"[13]. Non si pensi a due casi isolati: aprendo la lettera e scorrendone le pagine, ritroviamo o la stessa frase[14], o parole equivalenti[15]. 

    Difficile equivocare sul significato obiettivo della frase, che proprio in quant'ho premesso trova il suo Sitz-im-Leben; deriva infatti dal cristianesimo desoprannaturalizzato della Liberaltheologie, la quale a sua volta è figlia naturale della tradizione illuminista. Il Sitz-im-Leben è addirittura confessato: a p. 55ss. tutto è detto in chiave liberaltheologisch. I discepoli infatti si convincono che Gesù è risorto e ne reinterpretan la vita, alla luce della sua risurrezione, come "appartenente al mondo di Dio". Non mancan, sia ben chiaro, parole e ragionamenti meno scioccanti, o addirittura pienamente ortodossi; è il costume dei "neoterici", come direbbe Amerio: un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma resta il fatto della distinzione tra il Cristo della Fede ed il Gesù della storia e, col fatto, il senso che gli ho dato chiudendo il mio precedente paragrafo. Con profondo rammarico devo prender atto, perciò, che si tratta d'una frase da riprovare per un doppio motivo: perché non confessa in Cristo il Figlio naturale di Dio e perché lo stacca dalla circuminsessione amorosa tra Dio Padre Figlio e Spirito Santo, sovvertendo insieme il dogma trinitario e quello cristologico. Parlo di significato obiettivo, ben sapendo o comunque augurandomi che le intenzioni soggettive non abbian avuto altro di mira che di facilitare l'incontro salvifico col Signore Gesù, l'eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, della sua stessa sostanza, perfettamente Dio e perfettamente uomo, avendo preso l'umana carne dal grembo immacolato della Vergine Madre, per esser il rivelatore il mediatore il redentore il salvatore del genere umano. Sì, questo so e questo m'auguro che sia pure nelle intenzioni, meglio ancora se nelle convinzioni di Fede, del Vescovo che ha firmato la Lettera ai cercatori di Dio, per essa avvalendosi, lo confessa lui stesso, "di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione"[16]. La confessione non mi consola. Devo dedurne che la situazione è molto più grave di come appare: così stando le cose, ne deduco che gli errori appartengono non ad una sola persona, ma ad un insieme di persone, per giunta considerate competenti ed ufficialmente incaricate di collaborar in base alla loro competenza. Com'è possibile che la competenza ingeneri l'errore? Di quale competenza si tratta? E quale teologia può esser il terreno di coltura per una competenza che semina l'errore? 3 - Gli errori - Parole come "errore" ed "eresia" non si dicon a cuor leggero: sconsideratamente superficialmente astiosamente. Son parole gravissime che si riferiscono a posizioni dogmatico-teologiche altrettanto gravi. La prudenza, non meno che la carità, son in casi del genere due condizioni previe e non discutibili. Purtroppo, nel caso in esame - "et flens dico", Fil 3,18 - esse sono le due sole parole oggettivamente adeguate, con la conseguenza che inadeguata sarebbe ogni altra parola. Debbo anzi riconoscere - ancora "flens dico" - che aveva ragioni da vendere, il vecchio De Rosa, quando per primo mise il dito sulla piaga. 

   La pseudoteologia di questo Ecc.mo personaggio, al quale la CEI affida le sorti della dottrina cattolica, del suo annunzio e della sua catechesi, e quindi della nostra Fede oltre che della nostra salvezza, è tutt'un coacervo di posizioni decisamente erronee ed insostenibili. Il suo punto di partenza - la teologia dal basso - lo pone a braccetto con i massimi responsabili dell'odierna miopia teologica: attraverso Rahner e la pletora dei soliti ripetitori risale a Heidegger, Husserl, Hegel, non senza strizzatine d'occhi en passant a Barth, Bultmann, Moltmann, Schillebeeckx, Block, né senza sintomatiche reminiscenze di Gioacchino da Fiore, di Vico, di Croce, di Spinoza e del suo emulo moderno Teilhard de Chardin. 

   Un tale punto di partenza è una pista di lancio verso il ribaltamento radicale della dogmatica classica: Dio è considerato sullo sfondo dell'uomo e misurato sulle sue naturali necessità e limitazioni, invischiato in esse, sofferente per esse e non meno sofferente del Figlio suo che le fece proprie. Le sue simpatie per il teopaschismo o monofisismo teopaschita lo metton al passo dei Patripassiani, per i quali "si ipse est Filius qui et Pater, crux Filii Patris est passio"[17], ma lo coinvolgono pure, inevitabilmente, nella loro condanna[18]. La sua concezione del Dio non più personale ne mette in evidenza i tratti hegeliani, quelli d'un Dio dichiarato, anzi definito "storia": un Dio che diviene, si pone e si rinnova nell'ondiflua immanenza mondana. L'immutabilità e l'impassibilità di Dio son pertanto superate di slancio: ferri vecchi e del tutto inutilizzabili dai moderni laboratori di teologia dogmatica. La derivazione hegeliana di questo "pezzo da novanta" si rivela nell'aver egli confuso cristologia e soteriologia in un impalpabile pancristismo, grazie al quale il Signore Gesù dovrebb'esser al centro della realtà, tutta in lui ricapitolata (cf Ef 1,10), ed è invece la ragione e la molla di quel divenire dialettico che, con Feuerbach, porta alle conseguenze estreme la dialettica hegeliana, trasformando la teologia in pura e semplice antropologia.

   Si tratta d'un quadro appena abbozzato, che l'ineludibile esigenza d'un'analisi critica vorrebbe più specificato ed approfondito; il presente semplice abbozzo è dovuto al fatto che questo scritto, non essendo formalmente un'analisi critica, non risponde alle sue esigenze. Tuttavia, i pochi tratti del quadro generale qui delineati costituiscono, secondo me, un sufficiente sfondo sul quale l'espressione "Il Dio di Gesù Cristo" si colloca come a casa propria. E' la casa equivoca dell'ammodernamento teologico, in tanto tale, cioè teologia svecchiata e rinnovata, in quanto ha dato lo sfratto: a quella divina Rivelazione che la Chiesa dichiara conclusa con la morte dell'ultimo apostolo alla Tradizione che n'è nata come supporto della vita e della giovinezza perenne della Chiesa; al Magistero ecclesiastico come organo, solenne ed ordinario, di codesta Tradizione; alla teologia dei grandi dottori, costruita sulla Rivelazione e sulle definizioni dogmatiche per darle sicurezza "in lumine fidei, sub Ecclesiae Magisterii ductu"[19]. 

   Portando sulle spalle la pesante responsabilità d'un tale sfratto, non so con quale faccia sia possibile presentarsi a Dio, per affidargli la famosa Lettera e chiedergli di "farne strumento della sua grazia"[20]. 

 B. Gherardini 

 [1] Nato il 27 genn. 1808 a Ludwigsburg, alunno di F. Chr. Baur, elaborò nel 1831/32 a Berlino le lezioni di Schleiermacher sulla vita di Cristo ed altrettanto fece nel 1832/35, come Repetent a Tubinga, con la vita di Cristo di Hegel, finché, proprio nel 1835/36, pubblicò il suo famoso Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet in due volumi, dei quali già il primo suscitò un tale vespaio che Strauss ci rimise il posto di Repetent. Nel 1837 pubblicò l'apologia dello suo scritto incendiario: Streitschriften zur Verteidigung meiner Schrift über das Leben Jesu und zur Charakteristik der gegenwärtigen Theologie. Il fossato che già prima era stato aperto tra il-Cristo-della-fede ed il-Cristo-della-storia, si dilatò fin all'inverosimile sotto la spinta d'esigenze c.d. storico-scientifiche: la fede è una cosa, la scienza un'altra. La Leben Jesu diventò una corrente, sulla quale riferì con onestà critica il poliedrico esegeta-teologo-medico-organista-missionario (fondatore del discusso ed ammirato ospedale di Lambarené) ed appartenente egli stesso alla Liberaltheologie, SCHWEITZER A., Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J.C.B.Mohr (P. Siebeck), Tubinga 19516, il quale, ricercando i prodromi del fenomeno, li individuò anzitutto in H. S. Reimarus ed in alcune espressioni vetero-razionaliste, nel colto razionalismo di H.F. G. Paulus, in quello romantico-sentimentale di Schleiermacher e quindi in quello "scientifico" di Strauss, al quale dedica le p. 69-128 prima di passare alle successive Vite di Cristo. Per una mess'a punto complessiva, cf RISTOW H.-MATTHIAE K. (a c. di), Der historische Jesus und der kerygmatische Christus, Ev. Verlagsanstalt, Berlino 1960. 

 [2] STAUFFER E., Die Theologie des Neuen Testaments, Stoccarda 19473. Altrettanto VOGEL H., Christologie, 1.Monaco 1949, sp. p. 22. 

 [3] GALTIER P., L'unité du Christ: Être, Personne, Conscience, Parigi 19392; ID., La conscience humaine du Christ, in "Gregor." 32 (1951) 526ss, sp. p. 562; in polemica con lui, ma ad altissimi livelli, intervenne PARENTE P., col suo capolavoro L'Io di Cristo, Morcelliana, Brescia 1955, terza ed. Istituto Padano Arti Grafiche, Rovigo 1981; ID., Unità ontologica e psicologica dell'Uomo-Dio, Collez. Urbaniana 3/2, Roma 1952. 

 [4] BARTH K., Kirchliche Dogmatik, I/2 Zollikon-Zurigo 19453, p. 71: "...nach dem Phantom eines historischen Jesus im leeren Raum hinter dem Neuen Testament". 

 [5] BOUSSET W., Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus, Gottinga 19212. 

 [6] Cf spec. BULTMANN R., Theologie des Neuen Testaments, Verlag J. C. B. Mohr (Siebeck) Tubinga 19583; ID., Die Geschichte der synoptischen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 19615; ID., Glauben und Verstehen, 3 voll., J. C. B. Mohr (Siebeck), Tubinga 1961-62. Tra le innumerevoli opere d'interpretazione o di presentazione, scelgo l'unica che più d'ogni altra riesce a far capire il programma della "smitologizzazione" bultmanniana: MALET A., Mythos et Logos - La pensée de Rudolph Bultmann, Labor et Fides, Ginevra 1962. Come puntuale ed onesta controversia fra due grandi si veda anche BARTH K., Rudolph Bultmann: ein Versuch, ihn zu verstehen, Zurigo 19643; al riguardo si confronti anche lo scambio epistolare Karl Barth-Rudolph Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, a c. di B. Jaspert, Zurigo 1971, spec. lett.94/95 p. 169ss, 

 [7] BULTMANN R., Glauben und Verstehen, II. p. 258: "So ist auch Christi Herr-Sein, seine Gottheit, immer nur je Ereignis. Eben das ist der Sinn dessen, daß er das eschatologische Ereignis ist, das nie zu einem Ereignis der Vergangenheit objektiviert werden kann, auch nicht zu einem Ereignis in einer metaphysischer Sphäre, das vielmehr jeder Obiektivation widerstreit". 

 [8] Ibid. 

 [9] Ibid., I, p. 331. 

 [10] Ed. paoline, Cinisello Balsamo, 1981. 

 [11] Proprio a me l'Em.mo Card.Ursi, certo non volendo, ne dette la notizia. 

 [12] Dalla presentazione di Lettera ai cercatori di Dio, Paoline Editoriale Libri, Milano 20093 , p. 3. 

 [13] Ibid. p. 3-4. 

 [14] P. es. a p. 44, 65; a p. 85 la frase entra nel titolo del III cap. 

 [15] Un solo esempio, fra i tanti: "La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo Figlio di Dio" (p. 68). Non evidente, ma reale è qui la dissociazione del Cristo della Fede dal Gesù della storia, il quale non vien adorato perché "Figlio di Dio" e quindi Dio egli stesso, ma la sua divina figliolanza è fatta dipendere dalla Fede dei credenti. 

 [16] Ibid. p. 3. 

 [17] S. LEONE M., Ep. "Quam laudabiliter", 21 luglio 447, DS 284. 

 [18] Ibid. 

 [19] Optatam totius, 16/a. 

 [20] Presentazione, cit. p. 4. Si ringrazia per l'autorizzazione alla pubblicazione il sottostante Sito web FONTE: DISPUTATIONES THEOLOGICAE