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Gesù Cristo Figlio di Dio

   Siamo arrivati alla fine di questo lungo cammino. Certamente molti elementi della ricerca su Gesù, e sul Gesù storico, ci sono sfuggiti, anche se pensiamo di aver toccato i punti salienti della Persona del Rabbi di Galilea. Una persona dietro la quale, alla luce di tutto quanto finora esposto, non è difficile intravedere una ben più grande identità. Un "Io" che lui stesso ha manifestato tra i chiaroscuri della sua rivelazione, ben sapendo come l’idea di un Dio Altissimo che si possa incarnare in un uomo è inconcepibile per la religione ebraica e quanto grande fosse il rischio di morire prima di portare a termine tale missione. 

   Eppure da questa persona dai tratti nascosti e misteriosi, ogni tanto è fuoriuscito un raggio di luce superna. In tutto quello che ha detto, ha fatto ed ha operato, Gesù ha dimostrato di essere un uomo perfetto. In nessun altro essere umano, di nessuna religione, possiamo trovare un’elevatezza morale e spirituale pari alla sua.

   Gesù è proclamato ed invocato come Signore e Cristo e professato come Figlio di Dio. Questi aspetti peculiari di come i suoi stessi discepoli si rivolgono a lui costituiscono “una prospettiva imprescindibile per una penetrazione del mistero di Dio rivelato nella storia straordinaria dell’uomo Gesù”. 

  Gli stessi titoli di Cristo e Signore esprimono uno stadio abbastanza arcaico della cristologia apostolica...”(M. Bordoni, Gesù Cristo, in Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, sesta edizione 1991, 550). Il termine Cristo, in ebraico Messia, appare poche volte nei Detti evangelici di Gesù. Infatti lo troviamo 30 volte presente in tutti i vangeli, mentre negli altri libri del Nuovo Testamento è presente ben 465 volte. Quindi appare chiaramente come, in seguito all’esperienza della Pasqua, sia avvenuto uno sviluppo semantico di tale parola, che assume il significato che conosciamo oggi: Gesù il Cristo, cioè Messia di Israele che è morto ed è risorto.

  Ben più diffuso ed importante è il titolo di Signore, in greco Kyrios, dall’ebraico Adonai, il termine sostitutivo del tetragramma sacro IHWH, che nessuno poteva pronunciare. Lo troviamo nella comunità cristiana di lingua aramaica, dove il termine Maranatha”(1Cor 16,22; Ap 22,20) esprime l’invocazione dei discepoli per la venuta del Signore alla fine dei tempi. Infatti, proprio il termine “Maranatha” chiude tutta la rivelazione biblica: “Colui che attesta queste cose dice: «Sì, verrò presto!». Amen. Vieni, Signore Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!”(Ap 22,20-21).

   Il termine Maranatha esprime la più antica formula liturgica che presenta il titolo Signore, e “affonda le radici anteriormente alla pasqua: l’appellativo «mari» è riferito a Gesù nella sua vita terrena in qualità di re messianico (Mc 12,36-37; Mt 22,43-45; Lc 20,42-44), particolarmente in riferimento all’intronizzazione del Figlio dell’uomo ed all’esercizio della sua maestà regale per la fine dei tempi (Mt 7,21-22; 24,42; 25,11-12; 31,45)”(M. Bordoni, Gesù Cristo, in Nuovo Dizionario di Teologia, Ed. Paoline, sesta edizione 1991, 551).

   Dopo la Pasqua il termine Signore raggiunge la sua massima valenza teologica e lo vediamo particolarmente negli scritti di Paolo dove la salvezza è vincolata alla confessione di fede che «Gesù è il Signore» (Rm 10,9 1Cor 12,3). Ma è nella epistola ai Filippesi, e precisamente nel celebre inno cristologico (Fil 2,6-11) che abbiamo l’esaltazione di Cristo come Signore: “Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”(Fil 2,9-11). 

    Con il titolo Signore che nell’antico testamento è utilizzato come nome di Dio al posto del tetragramma sacro, si intende affermare che Gesù è il Figlio di Dio e Signore onnipotente. 

    Tra tutti i titoli Cristologici, ce n’è uno che vanta una particolare credibilità a causa della sua antichità storica. È il titolo di Figlio dell’uomo, che troviamo nei Vangeli, mentre negli altri testi del Nuovo Testamento è presente solo negli Atti degli Apostoli (At 7,56), a parte la citazione di Ebrei 2,6 dove l’espressione viene usata in altro senso. Ciò si può spiegare col fatto che fuori delle comunità Palestinesi il titolo non sarebbe stato capito, ecco perché Paolo non lo utilizza nelle sue lettere e non è presente in altri scritti neotestamentari. 

   Nel libro di Enoc questo appellativo si identifica nella persona del Messia, ed è con questo significato che viene utilizzato da Gesù con lo scopo non troppo recondito di orientare i suoi discepoli a pensare alla sua persona, a riflettere sulla sua missione e, perché no, ad andare oltre l’apparenza dell’uomo che sta davanti a loro, per identificare la figura apocalittica del Re e del Giudice escatologico, celeste: “E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo” (Mc 14,62). Una esaltazione postulata dalla sua umiliazione: la passione e la morte. E forse in questo termine di Figlio dell’uomo Gesù ha voluto associare entrambi i caratteri della sua sublime missione: quello del martire che condivide l’esistenza umana nella sua miseria e debolezza, e quello del Re e Giudice che eleva tale esistenza fino all’intimità divina. 

   Nei Vangeli, particolarmente in quello di Giovanni, posto per iscritto alla fine del primo secolo, quando la riflessione sul Rabbi di Galilea ha raggiunto il suo punto culminante sotto il profilo della rivelazione, Gesù è presentato come il Rivelatore di Dio, È lui che rivela ciò che il Padre gli ha fatto conoscere (Mt 11,25; Lc 10,21). 

   Non occorre arrivare alla teologia profonda del quarto Vangelo per riconoscere questa realtà. Già nei Sinottici abbiamo un nucleo di tale annuncio (Mt 11,27; Lc 10,22; ovviamente Cfr Gv 1,18). 

   Ma è in un altro aspetto della sua persona, così come rivelato dalla Cristologia del Nuovo Testamento, che appare e si manifesta, ancora di più, la persona Divina di Gesù. È quello della sua preesistenza. Il tema della preesistenza di Gesù lo troviamo proclamato solennemente nel Prologo del quarto Vangelo, allorché è scritto: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio”(Gv 1,1-2). Lo troviamo presente anche in altri testi Giovannei come nella prima lettera di Giovanni(1Gv 1,1) e nel libro dell’Apocalisse (Ap 19,11-16). Ma è in un passo successivo che troviamo riportata, sulle labbra stesse del Cristo, l’idea della preesistenza: “Rispose loro Gesù: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono»”(Gv 8,58). L'espressione originaria greca che traduce in verità, in verità, è Amen, Amen. Per due volte l'evangelista mette sulle labbra di Gesù questa formula che caratterizza il suo insegnamento differenziandolo da quello degli scribi. Solo Gesù utilizza tale  termine per introdurre i suoi discorsi. Egli afferma non solo che esisteva prima di Abramo, ma che il suo essere è essenzialmente distinto da quello di qualsiasi uomo. "Prima che Abramo fosse, io sono". Il presente utilizzato da Gesù, ™gë e„mi... (Io sono) evoca il nome stesso di Dio che si presenta a Mosè sul monte. L'io sono pronunciato da Gesù è lo stesso pronunciato dal secondo Isaia: "...poiché io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore"(Is 43,3). 

   Qualcuno può anche affermare che il termine "sono io" è utilizzato nello stesso vangelo anche dal cieco nato(Gv 9,9), ma Gesù lo utilizza conferendo ad esso una particolare solennità. È interessante, a tal proposito, confrontare questa espressione con quelle analoghe presenti nei vangeli Sinottici (Matteo 14,27; Marco 6,50; 13,6; Luca 9,18; 21,8). 

   L'espressione Io sono significa anche che Gesù non è nato, essendo presente già prima che Abramo fosse. Il nome indica una esistenza eterna ed assoluta, e in questo passo implica chiaramente la preesistenza e la divinità di Cristo, e così l'intendono i Giudei, ai cui occhi l'affermazione di Gesù suona come una bestemmia: “Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio”(Gv 8,59). 

   In realtà, se vogliamo considerare la cronologia tradizionale del Nuovo Testamento, già Paolo aveva messo in rilievo questo aspetto fondamentale della preesistenza di Gesù, partendo dalla sua esperienza personale col Risorto, e confrontata con coloro che hanno vissuto con lui, a Damasco (Anania ed altri), la sua nascita a Cristo. Già nella prima lettera ai Corinti Paolo oppone alla falsa sapienza del mondo la vera “Sapienza” di Dio che è Gesù Cristo crocifisso (1Cor 2,2). “Come la «sapienza» Cristo è «Immagine di Dio»(2Cor 4,4), immagine che rivela la gloria di Dio sul volto di Cristo(2Cor 3,18; 4,6) e che indica che Gesù Cristo «è» in se stesso, come la Sapienza, l’espressione perfetta del Dio invisibile (Col 1,15). Come la Sapienza era l’immagine guida della creazione, così il Cristo, Sapienza di Dio, assolve un ruolo prototopico nella creazione: egli è il «primogenito» prima di ogni creatura(Col 1,15b), è «principio», «capo» che è «prima» di tutto(Col 1,17), in cui tutto è fatto e trova consistenza (1Cor 15,45-49; Rm 8,29). 

   Ma è nell’inno, forse prepaolino, contenuto nella epistola ai Filippesi che Paolo fa una delle affermazioni più chiare che troviamo nella Scrittura sulla preesistenza di Cristo e, quindi, sulla sua divinità. Egli usa il linguaggio della filosofia greca descrivendolo come Colui che era “in forma di Dio”(Fil 2,6). Quando Paolo afferma che Gesù Cristo è “nella forma di Dio”, dichiara che Gesù è sostanzialmente Dio. La CEI traduce così l’originale greco: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”(Fil. 2,6). 

   È ovvio che quando il quarto vangelo viene messo per iscritto la Cristologia ha già avuto un notevole sviluppo. Ciò non toglie che a partire dall’evento pasquale ci sia stata una sempre maggiore comprensione delle Parole e degli Eventi operati da Gesù. Lui stesso aveva anticipato che solo dopo la Pasqua, ammaestrati dallo Spirito Paraclito, i suoi discepoli avrebbero compreso chi veramente Egli era. Ma è soprattutto nella scena del riconoscimento di Tommaso, dopo la sua risurrezione, che Gesù accetta di essere adorato dallo stesso, ex incredulo, Tommaso: “Signor mio e Dio mio!”(Gv 20,28). "Quello di Tommaso è un gesto di adorazione e di culto che può essere reso solo a Dio. Infatti, come afferma Robert Louis Wilken elaborando la riflessione di sant’Ilario di Poitiers, “«Signore» e «Dio» sono le parole dello Shema, qui, però, non si riferiscono al Creatore, al Re dell’universo, ma a Cristo. A causa della risurrezione, Tommaso ha compreso che l’uomo che conosceva e aveva vissuto con lui e i suoi compagni non era solo una persona straordinaria, ma il Dio vivente. «Nessuna natura, se non quella divina, avrebbe potuto risorgere per propria virtù dalla morte alla vita», scrive Ilario di Poitiers, intendendo affermare non solo che la risurrezione ha rivelato qualcosa agli apostoli, cioè la divinità del loro maestro, ma che tale Evento ha spinto gli stessi apostoli a concepire Dio in modo diverso. Secondo il grande Padre della Chiesa, Gesù risorto ha fatto sì che Tommaso intenda «attraverso la virtù illuminante della risurrezione, tutto il mistero della fede», perché «ormai», cioè alla luce della risurrezione, Tommaso è stato in grado di professare Cristo in quanto Dio senza «escludere la professione di un solo Dio»"(Donato Calabrese). 


 CONCLUSIONE 

   Siamo ormai giunti alla conclusione di questo lungo cammino sulle tracce di Gesù di Nazareth. Oggettivamente parlando, non si può negare l'evidenza storica: Gesù è un uomo il cui parlare ed il cui fare mette completamente all'ombra ogni altro personaggio della storia umana. Non solo, ma nessun essere umano, a meno che non fosse un pazzo, ha mai affermato, anche se in modo implicito, la sua divinità. Gesù ha accettato di essere adorato (Cfr Mt 14,33 e Gv 20,28). Ha rivendicato a sé il potere di perdonare i peccati(Lc 5,20 ss.). Cosa mai successa nella Bibbia. Solo Dio, nella storia biblica, ha il potere di rimettere i peccati. Gesù ha operato guarigioni e miracoli in nome proprio, e non in nome di Dio, diversamente, quindi, da come facevano i taumaturghi ebrei. Ha volutamente parlato della sua preesistenza e della sua divinità: “In verità, in verità prima che Abramo fosse, Io Sono”(Gv 8,58). Ha detto di essere una cosa sola col Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”(Gv 10,30). Pur sapendo la sua nascita e la sua vita, gli agiografi del Nuovo Testamento hanno scritto di Lui come del Creatore dell’Universo (Gv 1,1-3,14; Col 1,15-17; Ebr 1,2-3; At 3,15; Ef 4,10). L’autore della Lettera agli ebrei arriva ad esclamare: “Lo adorino tutti gli angeli di Dio”(Ebr 1,6). 

   “Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l'uomo per renderlo partecipe della sua vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all'uomo. Lo chiama e lo aiuta a cercarlo, a conoscerlo, e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha disperso, nell'unità della sua famiglia, la Chiesa. Lo fa per mezzo del Figlio suo, che nella pienezza dei tempi ha mandato come Redentore e Salvatore. In lui e mediante lui, Dio chiama gli uomini a diventare, nello Spirito Santo, suoi figli adottivi e perciò eredi della sua vita beata”(Catechismo della Chiesa Cattolica, Prefazione, 1).